Faccio la contadina da
30 anni ma sono contadina da sempre.
Sono nata contadina in
una giornata autunnale, in una casa senza servizi, in una camera da letto non
riscaldata e con un piccolo scaldino colmo di braci a tentare di stiepidire l’umida
aria di quel luogo, foriero di malanni reumatici per tutta la famiglia.
Sono nata contadina da
una madre che lavorava nei campi, faticando; al suo fianco un uomo intollerante
ed aspro, detto con parole gentili, ma è mio padre!
Sono stata allevata da
una nonna contadina, donna analfabeta, mia grande maestra, grande letterata,
portatrice di una immensa cultura orale, estremamente colta, tanto che fatico
ad oggi, fra i colti che conosco a trovarne di pari.
Il mio impulso di vita
mi ha portato, sin da bambina, a voler uscire da quei luoghi malsani, malati di
patriarcato e sofferenza femminile, ma non ha mai scalfito la mia essenza
contadina.
Sentirsi contadina era
per mia madre, una debolezza; una disgrazia nascere donna in quel contesto. Mio
padre forte e temerario con noi tutte, debolmente si piegava al cospetto di presenze
d’ogni altro ceto e provenienza: maestri/e o preti, mettevano senz’altro
soggezione, ma ogni abitante del paese, ogni creatura vivente entro le mura
cittadine, chiunque non fosse contadina/o era di più! E di fronte ad essa/o era
da sentirsi un meno.
Poi mi sono avviata
agli studi. Alle medie ho avuto fortuna, tanta. La scuola sperimentale di
Montelparo era all’avanguardia in Italia e nel mondo e grazie ad un gruppo
fantastico di insegnanti veri e consapevoli, abbiamo studiato la storia dei
grandi nomi ma abbiamo studiato ancor più la storia della nostra gente, dei
nostri avi contadini, con ugual riguardo. Joice Lussu venne a presenziare la
presentazione di un volumetto sulla nostra agricoltura scritto da noi allievi
delle medie,
Così nasceva la mia coscienza
e si rafforzava la coscienza della mia identità.
Volevo essere
rispettata, non da debole piegarmi al cospetto degli appartenenti a classi
superiori, ma da contadina trasmettere con orgoglio la mia sapienza, per me, ma
per tutte le donne contadine che mi avevano preceduto, per valorizzare il loro
sapere, contro e verso la conoscenza delle scienze e delle culture alte.
Ho fatto i miei studi,
il liceo, l’università, e a volte ho nascosto con vergogna le mie mani sporche
e callose.
Poi la fortuna o la
perseveranza, ha fatto sì che incontrando l’amore, e l’amore è condivisione, mi
si è presentata la possibilità di realizzarmi: una nostra fattoria.
Ho fatto questa
introduzione per spiegare quanto sia importante per me riconoscermi contadina,
ma adesso per entrare nel merito di questa comunicazione arrivo o tento di
arrivare all’agricoltura.
L’operare che
comunemente oggi viene definito agricoltura, si pratica in chiave
economicistica nei grandi (più raramente piccoli) spazi del pianeta, senza
rispetto per la terra e per gli animali, insterilendo ed erodendo suolo,
risorse idriche, specie e varietà animali e vegetali, impoverendo ed affamando
i popoli, avvelenando e trasformando nell’essenza il cibo e chi di esso si
nutre, cioè tutti.
Non è l’agricoltura che
ho imparato dai miei nonni.
La chiamo e va
chiamata, non agricoltura tout court, ma agricoltura industriale, erosiva,
estrattiva, per dirla con Massimo Angelini, andrebbe chiamata agriusura, perché
ben poco, anzi niente conserva del termine cultura.
Dal verbo latino còlere,
che significa coltivare, e per estensione prendersi cura, qui
propriamente del luogo che si abita, perché non c’è coltivazione nel senso
originario senza presidio del territorio, e quindi senza la sua conoscenza, da
questo verbo dicevo, arriva diretta a me la cultura di mia nonna, che mi
insegna a coltivare piante ed allevare animali, nel ciclo di vita e morte
rispettoso della madre terra, con una sapienza che è sapere (da sàpere, che
deriva da sale e ci rimanda a qualcosa di cui conosciamo il sapore
perché lo abbiamo assaggiato, esperito, passato a noi per esperienza).
Oggi sono gli esperti,
veterinari degli uffici pubblici, agronomi della regione e di altri enti, che
hanno studiato e conoscono di una conoscenza che implica un
apprendimento fatto sui banchi, sui libri e noi sul campo, priva di quel sapere
che abbiamo imparato a frequentare, oggi sono loro che fanno le leggi a cui ci
dobbiamo piegare, sono loro che dettano gli obblighi a cui dobbiamo sottostare,
legali ma assolutamente ingiusti. Non possono convivere più specie animali in
uno stesso spazio, cosa necessaria ad un sano equilibrio biologico, giusta,
giustissima, ma vietata; non possiamo scambiare semi con altri/e contadine,
pratica giusta, giustissima , ma vietata; non possiamo andare a prestare aiuto
ad un altro/a contadino/a nei lavori dei campi, condividere un attrezzo,
prestare un animale per la monta, condividere un laboratorio trasformazione
prodotti agricoli, una cantina, tutte buone pratiche contadine, ottime, ma
vietate, illegali.
Noi spesso, le disattendiamo,
ricordando Antigone, ma rischiando ogni volta sequestri e multe!
Per tutto questo e per
altro ancora molto, chiediamo che venga approvata una legge che riconosca il
nostro modo di fare agricoltura, per tutto questo chiediamo che sia
riconosciuta una agricoltura che deve chiamarsi contadina.
Le norme che
costringono il mondo contadino, umani, animali e vegetali, ad uniformarsi ad un
modo di essere e pensare ed agire proprio del mondo industriale e della
finanza, ci stanno schiacciando. Il nostro mondo rischia di scomparire e con
esso scompariranno ben molte cose, saperi, tradizioni, gusti…
.. Spesso dicono dei nostri salumi (abbiamo imparato a farli
dai nostri nonni e li riproduciamo con le stesse tecniche, con infinite
difficoltà) che sono sapori che non esistono più, e a noi rattrista pensare ad
un tempo in cui, in ogni casa c’era un prosciutto unico, un pane che solo in
quella madia poteva esser riprodotto…
Vorrei e siamo in tanti a volere, una legge che garantisca
ai contadini e alle contadine che praticano una agricoltura di piccola scala,
il diritto a produrre, trasformare e vendere ciò che è coltivato e allevato
sulla propria terra, senza restrizioni sanitarie, proprio come avviene per
l’autoconsumo. Vorrei poter ospitare nella mia casa contadina un numero esiguo
di persone con cui condividere vitto e alloggio, come faccio con i miei
familiari, senza snaturare con inopportuni e costosi sconvolgimenti edilizi la
mia rustica dimora. Vorrei che a decidere di agricoltura e territorio, negli
ambiti contadini non fossero più i “dotti medici e sapienti” che arrivano in
campagna con le scarpe lustre a dettare obblighi incomprensibili e privi di
buon senso, come riempire fogli e registri inutili, pratiche che rubano tempo
al nostro vero lavoro e che hanno come unico risultato la nostra alienazione,
il nostro non riconoscerci.
C’è l’urgenza di fornire una risposta forte, di resistenza,
alle leggi miopi, agli attacchi sempre più feroci contro le antiche e
costitutive libertà della persona; sta dilagando il potere del pensiero unico,
degli interessi economici e finanziari, della tecnocrazia, e tutto a discapito
del bene comune, della terra e di quel mondo contadino che ancora se ne prende
cura. C’è l’urgenza di fare chiarezza e ricostruire a partire dalla semplicità,
dall’abc delle cose.